Giuliana Silvestrini
Battiti
di Roberta Melasecca
“Il lavoro non è tanto quella apparenza d’azione con la quale la folle immaginazione mi fa mettere sottosopra il mondo, ciecamente, a causa dei miei desideri sregolati, ma l’azione vera, l’azione indiretta, quale conforme alla geometria (...). E’ con il lavoro che la ragione afferra il mondo stesso e s’impadronisce della folle immaginazione”. (Simone Weil, Riflessioni)
L’articolo 1 della Costituzione Italiana afferma e sancisce che l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. Il lavoro è valore costituzionale essenziale e ne è riconosciuto il carattere economico, sociale e personale. E’ il fondamento del nostro vivere civile, della realizzazione dell'individuo e della soddisfazione dei bisogni.
Lo psicologo del lavoro Silvano Del Lungo, in un recente saggio, esamina le radici e le diverse etimologie, nelle lingue della famiglia indoeuropea, della parola lavoro: ne risulta un quadro contrastante nel quale tonalità negative e positive si intrecciano e talvolta si sovrappongono. In latino labor significa fatica e deriva dalla radice lab - scivolare, perdere l’equilibrio; labourer in francese corrisponde ad arare con riferimento alla fatica e ai dolori del parto, così come l’inglese labour indica un lavoro fisico duro e faticoso, mentre in greco antico pènomai e ponos corrispondono al significato di lavoro fisico e contengono l’idea della sofferenza. Molti vocaboli di radice remota, ma anche recente, delineano il lavoro nella sua accezione di pena, sofferenza e fatica; di contro, altri connettono il lavoro al suo risultato e alla sua operatività: operare sia in latino e sia in italiano è relativo ad opus, il prodotto del lavoro. Tali sono anche i termini ergo in greco, werk tedesco, work inglese ed altri di origine germanica il cui senso è agire, fare funzionare.
Da tale panoramica emergono molteplici e differenti interpretazioni che legano il lavoro, non esterno all’uomo ma parte della sua personalità, alle vicende sviluppatesi nel corso dei secoli, dalla rivoluzione agricola a quella industriale, e alla percezione dell’essenza della vita: il lavoro e, dunque, la fatica come redenzione o mortificazione, come valore che permette di raggiungere le mete desiderate o come azzeramento dell’individualità, sono parti determinanti dell’umanesimo costruttivo, di un percorso di buio e luce, di negazioni e affermazioni che insieme tendono ad un progresso universale e personale. Matteo Rampin, nel libro Elogio della fatica, spiega che tre sono gli avversari che ogni essere umano deve affrontare: il mondo fisico, gli altri esseri umani e se stesso. E qui si innesta il ruolo nobile della fatica e del lavoro correlato ad essa: ciò che permette l’avanzamento del singolo, il prezzo da pagare quando si vogliono sviluppare i talenti.
Il progetto Battiti di Giuliana Silvestrini è una preghiera sulla fragile condizione umana, a volte incapace di sopportare la fatica del lavoro e della vita, sottomessa all’annullamento e annichilimento del corpo e dell’anima. Ma è anche un canto di riscatto e tensione, un canto di liberalizzazione e resurrezione, nel quale l’uomo realizza la propria e l’altrui umanità (cit. Karol Wojtyła). L’artista si impadronisce della folle immaginazione e la sua mente plasma una creatura pensante e pulsante, congelata nell’attimo della scelta, in quel frangente immaginifico che Simone Weil scruta negli scritti La Condizione Operaia e Riflessioni. Per Weil, infatti, la fabbrica è il luogo in cui la forza piega alla costrizione, assoggettando
anima e corpo e dove la stanchezza e la fatica sono fatti ordinari dell’esperire umano, ma anche il luogo di gioia e armonia dove tutti i rumori vi hanno un significato, tutti sono ritmati, e si fondono in una specie di grande respiro del lavoro comune cui inebria partecipare. La concezione del lavoro è, quindi, duplice: da una parte il lavoro coincide con la fatica ottusa, con la divisione estrema tra anima e corpo, con la mortificazione della coscienza che annienta e da cui ci si può riscattare solo attraverso l'adeguamento docile ad uno stato di necessità (Simone Weil, La Condizione Operaia); dall’altra il lavoro è Metaxù, ponte, chiave d’accesso al reale da cui discende il Sovrannaturale, l’apice dell’unità che coincide con la minima, indispensabile, inalienabile “fatica” (Simone Weil, Riflessioni). Il lavoro, allora, è lo strumento per recuperare spazi di libertà, è il lavoro lucido, filtrato dal pensiero, è consapevolezza di sé ed azione. Il lavoro non degrada se recupera lo spazio per l’attenzione e se fonde la funzione sociale e della relazione con la funzione trascendente dell’anima.
Battiti è l’immagine di una figura ripiegata su ste stessa: forse lontana, immersa in una realtà altra, cerca nel suo intimo energia e una nuova coscienza, e costruisce una diversa configurazione fisica e spirituale che trae in sé e nel possibile sguardo verso l’altro potenza vivificatrice e generatrice. Dentro l’involucro crudo e misterioso scorrono battiti, colpi sordi di negata vita che trascendono verso mondi di valore e dignità e che si materializzano attraverso diversi codici linguistici e attraverso varie tecniche - pittoriche, scultoree, installazioni e video. Un ciclo di opere pittoriche, di bozzetti e di studi evidenziano capacità descrittiva e visionaria ed un uso poetico dei colori e preannunciano la figurazione di una scultura in terra, sabbia e paglia, materiali primordiali che profumano di essenze ancestrali e raccontano di lotte interiori, di nascondimenti e salvezze. L’esercito di figurine in terracotta, simili tra loro, disposte nella stessa fissata posizione nel corpo e nello spazio, definiscono dimensioni relazionali oggettive e soggettive, delineando attività, risorse e strumenti e lo stesso agire dell’uomo che conduce ad un percorso di liberazione. In mostra anche un’installazione realizzata con tralci di vite, metafora della fatica del lavoro e delle relazioni umane, memoria di un passato e prefigurazione di un futuro, di un nuovo umanesimo che emerge da una struttura intricata e convulsa. Completa il progetto un video, dove suoni ripetitivi e meccanici accompagnano immagini astratte, ruotanti e vibranti e dalle quali emerge una vena pulsante, vita ciclica che si rinnova ogni giorno.
“Se un tempo il fattore decisivo della produzione era la terra e più tardi il capitale, oggi il fattore decisivo è l’uomo stesso, e cioè la sua capacità di conoscenza.” (Giovanni Paolo II, Centesimus Annus)
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Inaugurazione 14 Aprile h 17 presso il PAM Parete Art Museum - Palazzo Ducale di Parete (Caserta) Via Umberto I n° 40) - concept di Paolo Feroce
L'arte contemporanea non deve essere più banalizzata concettualmente o ridotta ancora a provocazioni passatiste, ma ha bisogno di trovare un pensiero, un'estetica nuova e oggettiva, di cercare la sezione aurea anche in volumi non figurativi, protendendo verso un'eleganza suggerita dal ritmo delle forme, dal giusto abbinamento dei colori e sperimentando, magari, materiali innovativi.
Non a caso nelle collezioni più importanti si ricerca la definizione assoluta di ogni dettaglio dell'opera d’arte e la sua fruibilità per farla dialogare con ambienti diversificati, siano essi architetture di stampo contemporaneo o edifici di valenza storico-monumentale. Il percorso espositivo seguirà queste indicazioni anche perché avvicinano, in maniera concreta, gli artisti al collezionismo.
Da questi concetti cardine nasce Presenze Contemporanee, un'esposizione aperta a chi ricerca la perfezione in ogni elemento artistico, sia figurativo che informale. L’esposizione Presenze Contemporanee si svilupperà all’interno delle sale del piano nobile del Palazzo Ducale di Parete (Caserta), che diverrà luogo e spazio dove presentare uno spaccato degli ultimi vent’anni di ricerca artistica italiana. Gli artisti selezionati si cimentano con progetti che si misurano con le tematiche odierne: ‘Uomo e Natura’, e ancora, l’individuo e la vita, la ricerca dell’equilibrio e della luce, sono alcune riflessioni affrontate dagli artisti presenti, Riccardo Furini e Vittorio Colamussi (progetto TURN), Giuliana Silvestrini, Francesco Nicolato, Stefano Accorsi, Andrea Boldrini, Fabrizio Mazzardo, Raffaele Boemio.
Giuliana Silvestrini apre il suo Atelier nel centro storico di Monterotondo, in via Fabio Filzi 40, con una personale che rappresenta un po’ la sintesi del suo percorso artistico e di vita. Le sue opere nascono sempre da un progetto e, non a caso, anche stavolta l’artista ha scelto per questa mostra qualcosa d’intimo, che dovrà essere la sigla della sua casa-studio. Il tema di fondo, infatti, è quello che lei stessa chiama “caos segnico”, ammettendo la funzione catartica che per lei assolve l’arte, via attraverso la quale è solita dare ordine a ciò che ordinato, per sua natura, non è: l’umana angoscia esistenziale. Il magma di pensieri, il rifiuto della morte, il contrasto tra bene e male, tra buono e cattivo, in questa mostra abbandonano la loro tragicità, si trasfigurano dando luogo ad un’immagine di Giuliana Silvestrini che è quella che tutti conoscono: un’artista entusiasta della vita, spontanea, giocosa. Dei tre quadri principali in “Metamorfosi I” colpisce, attraverso il giallo, l’arancio e i segni neri, il vitalismo titanico dell’artista. In Metamorfosi II tale vitalismo si stempera in un grigio di sottofondo, colore che nascendo dalla fusione di tutti i colori, è capace di sublimare il disordine primordiale. In “Metamorfosi III” l’azzurro che sfonda lo spazio fa pensare al desiderio di oltrepassare il limite umano, desiderio che solo l’arte può esaudire dando vita a ciò che l’artista immagina: l’infinito.
Per questa esposizione sono presenti altre opere eseguite con linguaggi differenti (carta incollata su tela), affini per il tema trattato, quale il caos primordiale, o se vogliamo, la disarmonia prestabilita: vi dominano, infatti, entità realizzate con un tessuto grafico ingarbugliato - potremmo dire un gomitolo - che nello spazio rimangono indipendenti o si toccano o, addirittura, si fondono tra di loro.
Come in un vero percorso catartico l’esposizione si conclude con delle xilografie in cui, invece, l’ordine viene evocato – ed invocato – attraverso delle linee orizzontali che ricordano uno spartito musicale, emblema dell’armonia universale che la Silvestrini riesce a riprodurre con la sua arte sottile e raffinata.
Gloria Zarletti